Elena non parlava molto. Ma guardava Stefano cercando di sorridergli con uno struggimento che la sua età rendeva materno. Stefano avrebbe voluto che venisse al mattino e gli entrasse nel letto come una moglie, ma se ne andasse come un sogno che non chiede parole né compromessi. I piccoli indugi d'Elena, l'esitazione delle sue parole, la sua semplice presenza, gli davano un disagio colpevole. Accadevano nella stanza chiusa laconici colloqui.
Una sera Elena era appena entrata, e Stefano per starsene solo, piú tardi, a fumare in cortile, le diceva che forse fra un'ora sarebbe venuto qualcuno — Elena spaventata e imbronciata voleva andarsene subito, e Stefano la tratteneva carezzandola — si sentí un passo e un respiro dietro i battenti serrati e una voce chiamò.
— Il maresciallo, — disse Elena.
— Non credo. Lasciamoci vedere: non c'è nulla di male.
— No! — disse Elena atterrita.
— Chi è? — gridò Stefano.
Era Giannino. — Un momento, — disse Stefano.
— Non importa, ingegnere. Domani vado a caccia. Venite anche voi?
Quando Giannino se ne andò, Stefano si volse. Elena era in piedi tra il letto e il muro, nella luce cruda, con gli occhi perduti.
— Spegni la luce, — balbettò.
— È andato...
— Spegni la luce!
Stefano spense, e le venne incontro.
— Vado via, — disse Elena, — non tornerò mai piú
Stefano si sentí male al cuore. — Perché? — balbetto Non mi vuoi bene? — La raggiunse attraverso il letto e le prese una mano.
Elena divincolò le dita, serrandogliele convulse. — Volevi aprire, — mormorò, — volevi aprire. Tu mi vuoi male —. Stefano le prese il braccio e la fece piegare sul letto. Si baciarono.
Quella volta non ebbero quasi da rivestirsi. Vennero allacciati dietro la porta e Stefano le parlava all'orecchio. — Tornerai, Elena, tornerai? Dobbiamo fare cosí: vieni soltanto se passo in negozio a salutare... Anzi, Elena, vieni al mattino presto, quando nessuno si muove ancora. Cosí siamo sicuri. Non ti vede nessuno. Se qualcuno venisse, ma non viene, possiamo fingere che mi facevi la stanza... Va bene? Vieni un momento quando sono ancora a letto e scappi subito. Piace anche a te venire, no?
Certo Elena sorrideva. A un tratto Stefano si sentí nell'orecchio quella voce un po' goffa ma calda: — Sarai contento se vengo soltanto un momento? Non ti piacerebbe passare una notte intiera con me?
— Sono selvatico, lo sai, — disse subito Stefano, — c'è il suo bello anche a fare cosí. Non venire di notte. Ti voglio bene cosí
Poco dopo, solo nell'ombra passeggiando e fumando Stefano pensò all'indomani e alla voce scherzosa di Giannino. Dei minuti goduti con Elena gli restava una stanchezza obliosa, sazia, quasi un ristagno del sangue, quasi che tutto, nel buio, fosse accaduto in sogno. Ma sentiva il rancore di averla pregata, di averle parlato, di averle scoperto, sia pure per finta, qualcosa di sincero, di tenero. Si sentí vile e sorrise. “Sono un tipo selvatico”. Ma bisognava dirle, e fosse pure ingenuo, che ogni loro contatto finiva con quella stanchezza, con quella sazietà. “Che non si creda di farmi da mamma”.
Pensava alla voce di Giannino, che sarebbe venuto a chiamarlo prima dell'alba. Era vero, di Concia? Pensò se invece d'Elena, avesse avuto Concia nella stanza. Ma il suo sangue attutito non ebbe sussulti. “Sarebbe lo stesso, nemmeno lei non è selvatica, vorrebbe che l'amassi: e allora dovrei stare in guardia anche da Giannino”. Chi poteva sapere quanto sotto la sua gentilezza Giannino fosse feroce? Non era di quella terra? Stefano preferiva abbandonarsi, e sapere che l'indomani lo avrebbe veduto, gli avrebbe parlato sarebbero andati insieme chi sa dove.
Invece l'indomani, nella camminata antelucana lungo il mare, Stefano pensò molto a Concia e la vide selvatica la vide inafferrabile, disposta a cedersi una volta e poi fuggire; mentre a un uomo come Giannino — cartuccera e denti bianchi nella penombra —, era forse asservita e devota, come l'amante di un bandito.
Giannino gli disse ridendo che si scusava di averlo disturbato la sera prima.
— Perché? — si stupí Stefano.
— Non per voi, ingegnere, ma so che in questi casi le donne fanno il diavolo e minacciano d'andarsene. Non vorrei avervi disturbato.
Veniva un fiato tiepido dal mare, che smorzava le parole e alimentava una dolcezza inesprimibile. Tutto era vago e tiepido e, pensando che a quell'ora lo coglievano le angosce, Stefano sorrise e disse piano:
— Non mi avete disturbato.
Passarono sotto la casa di Concia, dalla parse del mare. La casa era pallida e chiusa, in attesa del giorno, che l'avrebbe ridestata forse per prima, di tutta la marina. Senza fermarsi, Giannino piegò bruscamente a sinistra. — Prendiamo lo stradale — disse. — Risaliremo la fiumara. Vi va?
Sull'alto del terrapieno tremolavano fili d'erba. Stefano cominciò a intravedere la cacciatore grigia di Giannino, come gli era apparsa un momento sulla soglia della stanza illuminata. Inerpicandosi dietro a lui, indovinò pure le scarpacce a mezza gamba, dov'erano inzeppati i calzoni.
— Mi sono vestito in giacchetta, come ieri, — disse poco dopo.
— L 'essenziale è non sporcarsi.
Ai primi chiarori camminavano ancora verso l'interno, sotto i salici del greto. Il fucile, trasversale alla schiena di Giannino oscillava ai suoi passi. C'erano nubi e fiamme rosee alla rinfusa, sul loro capo.
— Brutta stagione per la caccia, — disse Giannino senza voltarsi. — Non è piú estate e non è ancora autunno. Troveremo qualche merlo o qualche quaglia.
— Per me è lo stesso. Vi starò a vedere.
Erano fra due poggi dove Stefano non era stato mai. Le poche piante e i cespugli cominciavano a uscire dall'ombra. La vetta nuda di un poggio si schiariva in un cielo sereno.
— È ancora estate, — disse Stefano.
— Preferirei la pioggia e il vento. Porterebbero le starne.
Stefano avrebbe voluto sedersi e lasciare che l'alba sorgesse dall'immobilità: vedere lo stesso cielo, gli stessi rami, lo stesso declivio impallidire e arrossare. Camminando, la scena mutava; e non era piú l'alba a sgorgare dalle cose, ma le cose a succedersi. Solamente da una finestra o da una soglia Stefano amava goder l'aria aperta.
— Catalano, fumiamo una volta.
Mentre Stefano accendeva, Giannino esaminava le vette delle piante. Un cinguettio solitario saliva dal folto.
Stefano disse: — Siete sicuro, Catalano, che con me ci fosse una donna?
Giannino gli volse la faccia contratta, col dito sul labbro. Poi sorrise in risposta. Stefano gettò il cerino nell'erba bagnata e cercò da sedersi.
Finalmente, Giannino sparò. Sparò fulmineamente al cielo, al mattino, alla tenebra che fuggiva, e il silenzio che seguí parve solare: L'alto silenzio del meriggio trasparente sulla campagna immota.
Uscirono dalla radura, e Stefano stesso ora precedeva tendendo l'orecchio.
— Andiamo sulla collina, — disse Giannino, — ci sarà qualche quaglia.
Salirono il declivio nudo, giallastro di stoppia. C'erano molti sassi, e la vetta tonda era piú lontana che alta. Stefano osservava sui ciglioni certi lunghi steli violacei palpitanti.
— Non siete mai venuto quassú? — disse Giannino. Questa è la nostra terra. Non dà nemmeno selvaggina.
— Avete il mare che dà pesce.
— Abbiamo quaglie che nude son belle. Quella è l'unica caccia che ci può appassionare.
— Forse è per questo che non fate altro, — rispose Stefano, ansante.
— Volete sparare? Là, dietro quel sasso: c'è una quaglia. Tirate.
Stefano malsicuro non vedeva dove, ma Giannino gli posò il fucile tra le mani e lo fece puntare, accostandogli la gota alla sua.
Qualcosa infatti volò via, alla detonazione. — Non è il mio mestiere, — disse Stefano.
Giannino gli tolse il fucile, e sparò un altro colpo. — L'ho colta, — disse. — L'avevate snidata.
Mentre cercavano fra la stoppia, udirono lontano un secco colpo echeggiante. — Qualcun altro si diverte, — disse Giannino. — Eccola, è solo ferita.
Un sasso bruno come gli altri sussultava sul terreno. Giannino gli corse addosso, lo ghermí, e raddrizzandosi lo sbatté a terra come una frustata. Poi lo raccattò e lo tese a Stefano.
— Siete crudele, — disse Stefano.
— Dite che fa caldo, — rispose Giannino asciugandosi il collo.
C'era tuttavia un po' di brezza che muoveva gli steli sui ciglioni. Stefano distolse gli occhi e vide lontano il sole sul mare.
— Andiamo, — disse Giannino, ficcandosi in tasca la bestiola.
Non trovarono piú altro, e ridiscesero sudati e indolenziti sul greto. Tutte le piante erano sveglie e gettavano ombra.
— Adesso fumiamo, — disse Giannino, sedendosi.
Raggi di sole filtravano obliqui, e si riempirono di fumo come seta marezzata. Giannino schiudeva appena le labbra e il fumo azzurro usciva adagio, quasi il fresco dell'aria lo condensasse: sentiva di salice amaro.
— Lo sapete che cos'è da noi la quaglia? — disse Giannino socchiudendo gli occhi. Stefano lo fissò per qualche istante. — Vado anch'io a questa caccia, — rispose impassibile.
Giannino sorrise con malizia e si frugò in tasca. — Prendete, ingegnere, L'avete quasi uccisa voi.
— No.
— Perché? Ve la farete cucinare dalla vostra padrona. Dalla figlia, via, che cosí potrà dire di avervi servita la quaglia.
Di rimando Stefano disse: — Spetta a voi, Catalano. Non avete nessuna che vi possa servire una quaglia?
Giannino rise silenzioso. — Ingegnere, prendete. Dopo l'indigestione di quaglia che vi si legge in faccia, vi farà bene. Ma questa vuole il pepe, perché sa di selvatico.
— Mi sembrerebbe di farvi le corna, — disse Stefano, respingendo la mano.
Giannino rise, nella sua barbetta, scompigliando le venature dei raggi. — Se vi piacesse, perché no? Nessuno potrebbe impedirvi.
Improvvisamente Stefano si sentí felice. Si sentí libero dal corpo d'Elena, capí che avrebbe fatto a suo piacere e l'avrebbe tenuta o respinta con un semplice gesto. Quel facile pensiero che ogni donna portava una quaglia, lo riempí d'ilarità. Si afferrò a quel pensiero per stamparselo dentro, ben sapendo che un nulla sarebbe bastato a disperdere quella gioia, ch'era fatta di nulla. L'ora insolita, l'arresto del tempo, il mattino consueto col suo bagno nel mare e la sua pausa all'osteria, veduto da lontano dipendere da un gesto, gli davano questa gioia. Bastava Giannino, bastava l'alba, bastava pensare a Concia. Ma già il pensiero che bastava ripetere l'istante per sentirsi felice — cosí nascono i vizi — dissolveva il miracolo. “Anche Concia è una quaglia, anche Concia è una quaglia”, si ripeteva inquieto e felice.
Mentre tornavano attraverso la campagna nel gran sole, Stefano sapeva che la fresca radura non si sarebbe piú staccata nel suo cuore da quella sciocca idea; cosi come la fulva parola dello scherzo di Giannino s'era incarnata nel corpo di Concia per sempre. Sentí di amare quella gente e quella terra, soltanto per questa parola.
— Scusatemi, Catalano... — ma l'interruppe un cane da caccia che sbucò sul sentiero e si precipitò contro Giannino. — Ohilà, Pierino! — gridò Giannino, fermando il cane per il collare, senza guardarlo. Una voce rispose, innanzi a loro.
Dove il sentiero si congiungeva con lo stradale che discendeva dal monte, trovarono ritto in attesa, col fucile e la mantella, la guardia di finanza. Il cane corse avanti festoso.
Presero insieme lo stradale del ritorno.
— Ingegnere, anche voi cacciatore? — vociò il giovanotto.
Stefano se lo ricordò a capo scoperto, riottoso e invermigliato, quella sera della festa. Adesso lo sguardo era amarognolo, come le sue mostrine.
— Beato chi vi rivede, — gli disse.
Quel Pierino socchiuse un occhio e si volse a Giannino. — Debbo aver veduto uno di voi da solo. Quando?
Stefano pensò a quei rauchi e sonori muggiti che il giovane aveva levato sotto le stelle, prima di stramazzare nel fosso, tanto che non solo un gruppetto di ragazze guidate dal prete, ma pure Vincenzo e altri che prima cantavano s'eran lasciati sdrucciolare dalla costa, quasi a fuggire ogni imputazione di complicità. Anche Stefano se n'era allontanato, ma godendo in quel buio un improvviso ricordo dell'infanzia remota, quando scendevano dalle colline gli ubriachi e passavano in clamore sotto la villa.
— Stavo chiedendo a Catalano perché non è venuto alla festa, — disse Stefano. — Voi vi siete divertito, pare
— Catalano lavora sott'acqua, — disse Pierino.
Stefano disse: — Naturale. Chi beve in questo paese?
— Fa troppo caldo.
— Noi siamo piú innocenti, — disse Stefano, — delle due preferiamo un po' di vino.
Giannino taceva sornione.
Pierino sorrise, compiaciuto. — È un vino che dà i reumatismi. Parola, non credevo di addormentarmi cosí caldo e ridestarmi cosí freddo.
— Colpa vostra, — disse Stefano. — Dovevate pigliarvi nel fosso una delle ragazze del prete.
— E voi lo faceste?
— Io? no... Sono stato ad ascoltarvi quando dicevate di essere in Maremma e di chiamare i bufali.
Giannino rideva. Anche Pierino ridacchiò, e chiamò il cane. — Tristo paese, — brontolò poco dopo; — dove per stare allegri bisogna imbestiarsi...
Quel pomeriggio, quando fu solo nella stanza, Stefano si distese sul letto di botto; non piú solamente per tedio. I suoi futili libri sul tavolino non gli dissero nulla. Era cosí lontano il suo mestiere: ci sarebbe stato tempo. Pensò alla mattinata e alla sua gioia, di cui gli restava un sapore di corpo di donna, che avrebbe sempre potuto rievocare nella tristezza. Se Elena non veniva in quel pomeriggio, voleva dire che l'aveva vinta lui, ch'eran d'accordo, che non gli avrebbe piú fatte quelle scene di spavento, ma accettava di fargli da corpo senza chiedergli nulla.
Si ridestò verso sera dentro un'aria immobile che lo svegliò perché fresca. Ritrovò prima il paese che se stesso, come se lui dormisse ancora, e una placida vita di bambini, di donne e di cani si svolgesse sotto la brezza della sera. Si sentiva irresponsabile e leggero, quasi il ronzio di una zanzara. La piazzetta trasparente avanti al mare doveva essere gialla di tramonto. Davanti all'osteria c'eran tutti, pronti al gioco e ai discorsi cortesi. Non si mosse, per trattenere quell'attimo, mentre lasciava adagio che affiorasse dal profondo una certezza anche piú bella. Che non dormiva piú e che quella pace era dunque reale. Che il carcere era ormai tanto remoto, che poteva tornarci nel dormiveglia con calma.